Siamo ancora nel pieno della pandemia che un anno fa ha cambiato radicalmente le nostre vite, stravolgendo la socialità, il modo di lavorare, l’istruzione e tanto altro. La distribuzione del vaccino iniziata da poco ci permette di aggrapparci a una timida speranza di ritorno alla normalità, ma non sappiamo per quanto ancora andremo avanti. E questa incertezza sul futuro si fonde insieme alle paure, alle ansie, al senso di solitudine scatenati dalla diffusione del virus e dalle misure, come il lockdown, volte a limitarne la diffusione. È naturale chiedersi quanto e come la pandemia abbia colpito la salute mentale delle persone. Abbiamo intervistato sull’argomento il Professor Luigi Ferrannini, medico specialista in Psichiatria e componente del Consiglio dell’Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri di Genova 21-24.
Oltre ai chiari pericoli a cui il Covid-19 espone tutti noi, c’è un’altra faccia della medaglia da considerare quando si parla di questo virus e delle sue conseguenze. Quanto ha inciso questa pandemia sulla salute mentale degli italiani?
Una prima considerazione va fatta: in genere si tende a separare il corpo dalla mente, la salute fisica dalla salute mentale. In realtà, sono due aspetti totalmente integrati: nel momento in cui ci sono dei problemi di salute fisica, dei pericoli, delle paure, dei fattori di rischio, la salute mentale è in gioco contemporaneamente.
Sotto questo punto di vista, le pandemie sono una tempesta perfetta: lo sono dal punto di vista fisico e da quello mentale. Soprattutto, lo sono per generazioni, come quelle attuali, che non avevano mai vissuto una situazione di questo tipo. Le generazioni attuali hanno vissuto alcune fasi epidemiche, come la prima fase della Sars oppure il Colera negli anni ‘70, ma mai una pandemia di queste dimensioni.
E in tutto questo non ha aiutato sicuramente una comunicazione spesso contraddittoria e confusiva a cui abbiamo assistito, non solo da parte dei media ma anche da parte degli “addetti ai lavori”. Invece di tranquillizzare, pur nella complessità della gestione della pandemia, questo tipo di comunicazione ha introdotto degli elementi di contraddizione. E anche questo ha inciso sulla salute mentale degli Italiani.
La pandemia ha portato a un aumento dei disturbi psicologici e psichiatrici?
Certamente sì e i dati sono anche preoccupanti. Sicuramente abbiamo avuto un grandissimo aumento dei Disturbi dell’umore, come la depressione: sono cresciuti del 42% rispetto al passato. A seguire, c’è stato un significativo aumento dei Disturbi dello spettro dell’ansia (ansia, ansia acuta, attacchi di panico, disturbi da stress post-traumatico), fino al 28-30%. Inoltre, sono cresciuti anche tutti i disturbi che potremmo definire meno gravi dello spettro dell’umore, come la paura, la melanconia, l’isolamento. Va tenuto in conto, inoltre, che i Disturbi dell’umore in alcuni casi possono comportare la messa in atto di comportamenti autolesivi, anche gravi. Fenomeni a cui abbiamo già assistito in altri momenti della storia, legati anche agli aspetti economici: come l’aumento dei suicidi durante la crisi economica degli anni Duemila. La preoccupazione per la perdita del lavoro o dell’autonomia può essere un trigger per questo tipo di comportamenti.
Ritiene che nel nostro Paese si tenda a sottovalutare le problematiche legate alla salute mentale?
In generale sì, ma in questo momento c’è un’inversione di tendenza, anche perché non è possibile sottovalutarle. C’è un’attenzione forte: in pandemia abbiamo visto un aumento significativo delle persone che chiedono aiuto ai Centri di Salute Mentale, per trattamenti psichiatrici o psicologici, purtroppo a fronte di una riduzione delle risorse, che era già avvenuta negli anni passati. C’è una differenza importante in questo periodo fra domanda e risposta.
Non tutti hanno una famiglia o amici a cui appoggiarsi. C’è anche chi ha affrontato Covid e lockdown completamente da solo, lontano da tutti. Quali sono le conseguenze dell’isolamento e della solitudine sulla salute mentale?
Questo isolamento ha colpito un po’ tutti. Le generazioni che ne hanno subito di più le conseguenze, però, sono stati i giovani e gli anziani. Per quanto riguarda gli anziani, l’isolamento di per sé è causa significativa di depressione. E questo lo abbiamo visto non solo nei casi di soggetti che vivevano da soli, ma anche nel caso degli ospiti delle RSA. L’impossibilità di avere un rapporto con i familiari, pur all’interno di una struttura in cui ci sono altre persone, ha portato a disturbi depressivi. Ci sono molti studi scientifici che per gli anziani identificano la solitudine come un fattore di rischio molto forte per i disturbi depressivi.
D’altra parte, anche per i giovani l’isolamento è stato un elemento che ha portato a disturbi per la salute mentale. Anche la tecnologia, con le sue possibilità di connessione, non è stata sufficiente per sopperire la mancanza del contatto. Questo significa che l’isolamento anche nelle generazioni più performanti nei sistemi di comunicazione indiretta ha prodotto una consapevolezza riguardo all’insostituibilità della relazione. Si possono introdurre nuovi strumenti ma non si può sostituire il rapporto umano. Questo è vero per i giovani come per gli anziani.
Come gestire le emozioni negative, come ansie e paure, che inevitabilmente molti di noi vivono in questo periodo?
Tengo a fare una precisazione: quando parliamo di emozioni non parliamo di sintomi. C’è il rischio di medicalizzare le emozioni. Le emozioni fanno parte della struttura della persona: malinconia, tristezza sono emozioni con cui conviviamo. Al contrario, la depressione è un sintomo. Le due cose non vanno confuse.
Chiarito questo, come proteggersi in questo periodo? Innanzitutto, facendo rete. Ricostruendo rapporti, relazioni, contatti. Perché queste emozioni sono dettate dall’isolamento e dalla paura del futuro. Importantissimo è anche mantenere molto alta, dal punto di vista comunicativo, una speranza affidabile sul futuro. Le speranze “affidabili” sono quelle che riescono a dare alle persone la forza di andare avanti, senza ingannarle con comunicazioni banali e superficiali. Tutti questi elementi insieme – fare rete, infondere coraggio, alimentare una speranza affidabile – possono aiutare le persone a gestire le emozioni negative e anche piccoli sintomi, facendole sentire parte di una comunità e contribuendo ad una rinascita collettiva.
Micol Burighel
Luigi Ferrannini
Nato a Bari nel 1948, laureato in Medicina e Chirurgia nel 1972, specializzato in Psichiatria nel 1976 ed in Neuropsichiatria Infantile nel 1979. Primario di Psichiatria dal 1980, ha lavorato in Ospedali Psichiatrici, Centri di Salute Mentale e Servizi Psichiatrici Ospedalieri. Consulente del Ministero degli Affari Esteri per lo sviluppo di Programmi di Cooperazione Internazionale nell’area dell’assistenza psichiatrica e della salute mentale in Paesi in situazioni di conflitto. Direttore del Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze dell’ASL n. 3 “Genovese” dal 1994 al 2013, data di pensionamento. Consulente del Ministero della Salute, della Conferenza Stato-Regioni e dell’AGENAS sui temi della salute mentale e dell’assistenza psichiatrica dal 2006 al 2016 e dell’Agenzia Sanitaria della Regione Liguria dal 2013 al Maggio 2016. Segretario della Società Italiana di Psichiatria (SIP) dal 2000 al 2009 e successivamente Presidente dal 2009 al 2011. Attualmente Consigliere Onorario. Socio fondatore (1999) dell’Associazione Italiana di Psicogeriatria (AIP) ed attualmente Presidente del Comitato di Garanzia ed Indirizzo. Componente del Consiglio dell’Ordine dei Medici della Provincia di Genova dal 2015 al 2017 ed attualmente dal 2018 al 2020.
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