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Diabete di tipo 2, l’assunzione di Semaglutide fa perdere peso ai pazienti obesi

Diabete di tipo 2, l’assunzione di Semaglutide fa perdere peso ai pazienti obesi

Buone notizie per chi soffre di diabete di tipo 2. È stato, infatti, dimostrato che l’assunzione di Semaglutide è in grado di far perdere peso ai pazienti obesi colpiti dalla patologia.

Diabete e chili di troppo: lo studio

Grazie a uno studio condotto da un team di studiosi dell’Università di Leicester è stato dimostrato che l’assunzione di Semaglutide (un farmaco antidiabetico utilizzato per il trattamento del diabete di tipo 2) riesce a far perdere circa 10 kg ai pazienti colpiti da diabete di tipo 2. Come è risaputo, il sovrappeso peggiora i sintomi della patologia, ma l’assunzione controllata di Semaglutide sembra ridurre il peso corporeo dei pazienti obesi di circa il 5%. Inoltre, la perdita di peso diminuisce la comparsa di patologie correlate come insufficienza cardiaca e altri problemi cardiovascolari.

Diabete e Semaglutide: i dati

Nella ricerca pubblicata sul portale scientifico The Lancet, viene evidenziato proprio come due terzi dei pazienti affetti da diabete di tipo 2, trattati con una dose di 2,4 milligrammi di Semaglutide, siano arrivati a una riduzione almeno del 5% del loro peso corporeo, ottenendo un miglioramento significativo nel controllo della glicemia. Per più di un quarto dei pazienti, invece, il calo del peso è stato pari al 15%.

I dati raccolti nello studio derivano da diverse rilevazioni condotte su 1210 pazienti affetti da diabete di tipo 2 il cui trattamento non stava portando a un controllo sufficiente della glicemia, divisi tra 12 Paesi del mondo:  Nord America, Europa, Sud America, Medio Oriente, Sud Africa e Asia.

“Questi risultati sono entusiasmanti e rappresentano una nuova era nella gestione del peso nelle persone con diabete di tipo 2 – ha dichiarato Melanie Davies, una delle ricercatrici coinvolte nello studio. Segnano un vero cambiamento di paradigma nella nostra capacità di trattare l’obesità, i risultati ci avvicinano a ciò che vediamo con la chirurgia più invasiva”.

Andrea Carozzi

 

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